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I diversamente abili nella nostra societÀ




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I DIVERSAMENTE ABILI NELLA NOSTRA SOCIETÀ











Introduzione


Nella mia tesina ho deciso di occuparmi della disabilità nella società occidentale attuale innanzitutto perché vivo, in prima persona, a contatto con ragazzi diversamente abili. Da circa tre anni svolgo, infatti, un'attività di volontariato, che mi ha permesso di conoscere, per la prima volta, un mondo nuovo, che anche a me fino a quel momento era del tutto sconosciuto. Prima non mi rendevo conto di cosa volesse dire condividere la propria vita, la scuola, lo sport, gli amici, con persone diverse da quelle cui noi siamo solitamente abituati.

Poi, però, il mio modo di accostarmi agli altri e anche a me stessa è cambiato: ho imparato ad apprezzare anche "il diverso", e a valorizzare i lati positivi delle persone che mi circondano.

Quest'anno ho deciso, quindi, di approfondire questo argomento, così importante e reale, anche dal punto di vista scolastico, attraverso questa traccia.

Dapprima ho analizzato come filosofi, psicologi e psichiatri del secolo scorso abbiano affrontato tale tema, partendo da Alfred Adler all'inizio del '900, fino ad arrivare alla fine degli Anni '80 con gli studiosi Ruggero Sicurelli ed Annalisa Zabonati. Riguardo alla disabilità, ho riscontrato opinioni abbastanza concordi; tutti, infatti, sottolineano che la separazione tra abile e diversamente abile non è poi così evidente. Più precisamente, si può affermare che, dal punto di vista psicologico, ogni soggetto può presentare una percezione di inferiorità di se stesso rispetto ad altri in determinati settori, come ad esempio lo sport, la musica, la scuola, il lavoro. Questi studiosi prendono, dunque, in considerazione atteggiamenti che sono patologici in persone diversamente abili, ma che, in modo ridotto, possono essere presenti anche in individui abili.  

Ho poi voluto considerare come il tema della disabilità venga affrontato nella letteratura italiana, nella quale ho trovato esempi molto significativi che si basano su storie realmente accadute. E' il caso del bambino dislessico del romanzo "Mio figlio non sa leggere", che grazie al padre riesce a superare in parte il suo handicap e ad inserirsi tra i suoi coetanei. Di rilievo è anche la storia d'amore, raccontata in prima persona da Barbara Jacobs, tra l'autrice e un uomo affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo. Infine, credo che essenziale sia il collage di testimonianze raccolto dagli autori di "Diversabilità", pubblicato proprio nel 2000, Anno Europeo della Disabilità. Nel libro intervengono sia abili che diversamente abili, accomunati dalla lotta per uno scopo comune: l'integrazione.

In seguito a tutte queste letture, mi sono resa conto che in Italia si sta formando una sensibilità sempre crescente per il mondo dei diversamente abili, e ritengo che ciò sia molto importante e positivo in un'epoca in cui l'accettazione del "diverso" è indispensabile.

Ho successivamente messo a confronto ciò che caratterizza la nostra società e quella tedesca. In questa lingua ho letto due romanzi che raccontano di rapporti di amicizia e solidarietà tra ragazzini abili e diversamente abili. Mi sembra molto singolare il fatto che nella lingua tedesca non esista una esatta traduzione del neologismo italiano "diversamente abile". Non credo, però, che ciò rispecchi una minore attenzione per questo tema; infatti, benché privi di questo termine, i romanzi sono entrambi portatori di messaggi di umanità nei confronti dei più deboli e di cooperazione con chi ci circonda. I ragazzi dimostrano di essere capaci di guardare oltre le diversità, e di instaurare amicizie profonde basate sul rispetto della personalità di ciascuno.

Credo che questo lavoro mi abbia innanzitutto arricchito, perché mi ha permesso, con l'aiuto dei miei insegnanti, di avvicinarmi ad un argomento per me molto importante anche nel campo della letteratura, della filosofia e della psicologia.

Ritengo, infine, molto positivo il fatto che sia nella letteratura italiana che in quella tedesca sia presente un'apprezzabile attenzione agli individui diversamente abili, perché ciò rispecchia anche una sensibilità da parte della società stessa.












FILOSOFIA


Filosofi, psichiatri e psicologi hanno preso in considerazione, a partire pressappoco dal secolo precedente, atteggiamenti e condizioni di individui diversamente abili. Mi sono dapprima documentata sullo studio di Alfred Adler, filosofo e psichiatra dell'inizio del '900. Egli analizza in particolar modo i bambini, la loro sensazione di inferiorità rispetto agli adulti e la possibilità che questa percezione aumenti a tal punto da divenire patologica.

Agli Anni 80' risalgono invece le analisi degli psicologi Gente, Sicurelli e Zabonati e dello psichiatra De Ajuriaguerra. Tutti, partendo da punti di vista diversi, affermano che in realtà il confine tra abili e diversamente abili non risulta netto e marcato come può sembrare.

Anche se è passato più di mezzo secolo, dunque, sembra che la posizione adleriana sia condivisa anche da questi altri studiosi; ossia non ci si riferisce soltanto ad individui che evidenziano comportamenti apertamente patologici, ma anche ad ognuno di noi, poiché tutti abbiamo vissuto, in qualche momento della nostra vita, la percezione di essere inferiori rispetto agli scopi che ci eravamo prefissi.


In "Tendenza al fine della vita psichica" Adler analizza lo sviluppo del bambino a partire dai primi anni di vita e, in particolar modo, i problemi che si possono presentare in seguito ad atteggiamenti sbagliati da parte degli adulti nei suoi confronti.

Egli sottolinea il fatto che il bambino ha un grandissimo bisogno di sicurezza, e fa di tutto per procurarsene sempre più. "Non ci vuol molto a riconoscere quanto solida sia la sicurezza desiderata dal bambino". Essa, inoltre, non è legata soltanto alla paura del pericolo, bensì alla vera e propria "conservazione dell'organismo umano". Il bambino tende, dunque, a cercare forme di sicurezza che sono ancora maggiori rispetto a quelle che gli sono realmente necessarie; esige, infatti, "un sovrappiù che vada al di là di quanto sarebbe necessario per il suo tranquillo sviluppo".

Questo perché in lui può subentrare la comune paura di non essere all'altezza, la quale si nota soprattutto nel bambino in cui, per qualche motivo, un pessimismo diffuso prevale: non ha fiducia nelle sue capacità, dimostra "indecisione, timidità, chiusura e diffidenza, e tutti quegli altri tratti mediante cui quel debole cerca di difendersi."

Già dalla nascita, può manifestarsi, nel bambino, un senso di inferiorità che lo induce ad assumere spesso atteggiamenti ostili verso l'ambiente che lo circonda. Adler sostiene che ciò sia causato "dalle molteplici privazioni", e che dovrebbe essere poi superato grazie al senso comunitario che lo lega ad altri uomini. Molti tendono a colmare questa inferiorità richiamando su di sé l'attenzione dei propri genitori, che li gratifica nel loro desiderio di autoaffermazione. I bambini riescono così a superare il loro complesso di inferiorità e quindi a sviluppare la loro personalità in modo più sereno.

C'è tuttavia il rischio che lo sviluppo sia distorto, che permanga cioè un senso di inferiorità eccessivamente marcato. Ad esempio, se "si pretende troppo da un bambino, gli si evoca con maggior rilievo nell'anima il sentimento della sua nullità. Altri bambini sono in continuazione fatti attenti sul loro scarso significato, sulla loro piccolezza e inferiorità. Altri vengono usati come giocattoli, come divertimenti, o vengono considerati come un bene da proteggere con ogni cura, o si considerano come una pesante zavorra."

Molti atteggiamenti, apparentemente innocui, di adulti nei confronti di bambini, possono quindi provocare dei danni anche gravi ai soggetti che sono più indifesi nei confronti degli adulti per il modo diverso e più insicuro di percepire ciò che li circonda.

Le conseguenze possono essere talmente profonde da protrarsi fino all'età adulta e possono assumere forme molto differenti tra loro. Il bambino, infatti, come ricorda Adler, può continuare a sentirsi inferiore e a non consolidare la sua autostima; oppure sviluppare, in contrasto, una eccessiva tendenza al potere, che prevale sul "senso comunitario". Tale tendenza è subdola e latente: i bambini, "avvantaggiandosi del bene che loro si vuole e dei teneri sentimenti che si hanno a loro riguardo, cercano di metterla in opera in maniera nascosta." Tale tendenza può causare danni alla vita psichica del soggetto, "cosicché [] il coraggio può diventare insolenza, l'obbedienza vigliaccheria, mentre riescono a trasformare la tenerezza in astuzia con cui ridurre gli altri alla remissività, all'obbedienza, alla sottomissione".



Adolfo Gente è ben consapevole che una relazione o una collaborazione con individui diversamente abili non è affatto semplice e facile da gestire; tuttavia, attraverso queste difficoltà, si può giungere ad una forma più serena di convivenza, perché queste persone sono in grado di comunicare con noi, cosiddetti "normali", anche se a volte nessuno se ne accorge. "I diversi, gli handicappati, non sono quelli, come qualcuno afferma, che comportano solo i problemi insormontabili, ma anche coloro che sono portatori di una «nuova cultura»."

A suo avviso l'inizio dell'emarginazione dei soggetti diversi comincia a scuola, dove "la maestra si difende da tutta una serie di angosce che le crea non solo l'impatto con un altro mondo culturale, ma anche l'insicurezza della propria preparazione psicopedagogica e il mito dell'autorità che ricopre".

Molti individui abili si potrebbero identificare con questa maestra, se non comportarsi in modi ancor più distaccati; e questo magari perché hanno paura del diverso, non credono nelle capacità di questi individui e sono convinti di non riuscire ad instaurare nessun tipo di rapporto con soggetti "diversi".


Per quanto riguarda la psicologia del diversamente abile, De Ajuriaguerra ritiene che sia "collegata alla frustrazione che implica l'infermità. Essere frustrato significa essere deluso nella propria aspettativa, ed il soggetto non trova quello che cerca, attende, spera, perché un ostacolo si interpone tra lui ed il suo fine".

Il soggetto diversamente abile può percepire, quindi, una sua mancanza o incapacità, e di conseguenza si sente a disagio. Trovo che questo comportamento non sia tuttavia proprio solo dei soggetti diversamente abili, bensì di ognuno di noi: come osservava anche Adler, se non riusciamo, per esempio, a giocare come gli altri a calcio, o a pallavolo, ci sentiamo frustrati e a disagio rispetto agli altri, proprio perché una nostra mancanza ci diversifica più o meno sensibilmente da chi ci circonda.


Come sostiene Ruggero Sicurelli, "la vita è uno strumento per creare valori", di conseguenza "dovremmo essere a disposizione degli altri per essere coinvolti in progetti capaci di far crescere lo spessore della nostra umanità". [] "Il rimando è soprattutto alla solidarietà, vale a dire ad un sentimento che ha accompagnato la storia dell'uomo in tutta la sua estensione". Nonostante indubbi progressi che negli ultimi secoli hanno sensibilmente modificato il modo di convivere con i più deboli, rimangono tuttavia una diffusa insensibilità e un disinteresse per le loro esigenze.

Al discorso di Sicurelli si aggiunge l'analisi di Annalisa Zabonati, la quale sottolinea l'importanza di una "necessaria ed opportuna consapevolezza di considerare/vivere il portatore di handicap una persona". [] "Ciò significa entrare in un mondo assai differente da quello che ci è proposto da una certa cultura inneggiante alla perfezione e all'imitazione di alcuni modelli stereotipicamente acritici e sovrapponibili".

Si entra dunque in un mondo molto più "vero", reale e meno alienato, in cui si impara a conoscere le difficoltà che la vita può presentare e che potranno un giorno coinvolgere anche a persone a noi care o addirittura noi stessi. I diversamente abili hanno perlopiù imparato a vivere con le loro capacità ed incapacità, come noi abbiamo fatto altrettanto con le nostre. Ora si tratta di unire questi due emisferi in un unico insieme.






















ITALIANO


Dal punto di vista letterario, ho preso in considerazione opere che si basano tutte sulla realtà, anche se con angolazioni differenti. In "Mio figlio non sa leggere", l'autore racconta in prima persona del modo in cui ha affrontato la disabilità del figlio, la dislessia; mentre in "Attraente, originaleemotivamente pericoloso", l'autrice descrive la sua esperienza con un uomo affetto dalla sindrome di Asperger e l'innamoramento che ha suscitato in lei. "Diversabilità" è, invece, un testo che si propone di fare un'analisi sulla situazione della disabilità e su ciò che si è fatto per le persone diversamente abili in Italia fino al 2000.


Nel romanzo "Mio figlio non sa leggere", l'autore, Ugo Pirro, presenta molto dettagliatamente una forma di disabilità: la dislessia. I protagonisti sono, infatti, un bambino dislessico, Umberto, e suo padre, il quale tenta disperatamente di combattere la malattia del figlio e di non farlo sentire inferiore agli altri.

A partire dai primi anni di vita, Umberto è stato sempre fin troppo coccolato ed accudito da una governante eccessivamente premurosa, e questo fatto ha contribuito notevolmente alla sua dislessia. Ad esempio, da piccolo non ha mai gattonato, e ciò gli ha impedito di formarsi un'adeguata conoscenza spazio-temporale dell'ambiente che lo circonda. Inoltre, "l'abitudine di non prendere sul serio il bambino, di significargli che non è nessuno, che non ha nessun diritto, che deve sempre tenersi riservato davanti agli anziani, che deve starsene sempre zitto" può farlo crescere "in un costante senso di paura di essere deriso in tutto ciò che intraprende".

Notiamo come il padre descrive le prime insicurezze di Umberto: "il trovarsi solo, per lui, può essere terrificante e inebriante, ma sentirsi ostacolato nelle sue scoperte, mentre le compie, può danneggiarlo irrimediabilmente, compromettere la collocazione nello spazio e nel tempo del suo corpo, l'uso riflessivo degli arti e dei sensi, l'organizzazione delle azioni in generale."

Non appena Umberto si rende conto di essere diverso dai suoi coetanei, e cioè di non riuscire a leggere come tutti gli altri, tenta di colmare questa sua mancanza, cercando di apparire superiore agli altri ed invincibile, anche attraverso comportamenti violenti ed insolenti."La sua aggressività, il suo iperattivismo non" [erano] "altro che una forma di difesa, sistemi di occultamento che egli aveva predisposti a protezione delle sue difficoltà di apprendimento e in ciò la sua intelligenza raggiungeva la spietatezza". [] "Nessuno sospettava che egli cercasse di nascondere il suo disturbo spingendo la professoressa di turno a escluderlo dalla lezione, proprio per non mostrare a tutti la sua difficoltà di lettura, la sua scrittura faticosa e sofferta".

Motivo di tanta aggressività è, dunque, il suo sentirsi diverso: non essendo uguale agli altri, e dunque accettato, Umberto ha il bisogno di dimostrarsi superiore e più forte, e si maschera sotto questa protezione. "La dislessia era qualcosa che lo faceva sentire inferiore agli altri, invece la sua irrequietezza, le sue trovate scherzose, i suoi atteggiamenti sprezzanti gli davano un ruolo di caporione che lo gratificava e garantiva la sua intelligenza". Anche i genitori, dal canto loro, avvertono come un pericolo la diversità del figlio: desiderano, infatti, che Umberto sia "un bambino senza diversità, carico di quella gioia che l'età pretendeva, capace di restituircelo irrequieto ma obbediente, diligente ed educato. [] Non volevamo che si scoprisse malato di diversità".

La diversità, il sentirsi diversi, costituiscono il nocciolo fondamentale del libro e, forse, più in generale, del rapporto stesso col mondo della disabilità. Ciò che, infatti, non permette a molte persone di avere un rapporto "normale" con un diversamente abile è proprio la paura, quasi il terrore, di avere un contatto con "l'altro", con "l'handicappato". Si noti, come esempio, l'approccio che il padre di Umberto ha con la dislessia del figlio:"finalmente in una rivista di psicologia incontrai la dislessia. Mi bloccai di fronte a quel termine come al cospetto di un nemico attestato da sempre e di fronte al quale non potevo indietreggiare". La paura e l'angoscia di avere un figlio "diverso" lo assalgono, sentendo trattare suo figlio e lui stesso con pietà, commiserazione e diffidenza, mai con reale interesse: "il rappresentante dei genitori dichiarò che obbligo della scuola era di favorire l'inserimento nella vita sociale, nella scuola, nelle palestre, in cielo e non so dove ancora, degli handicappati. Ma pronunciò quella parola per lui tanto sconveniente, sottovoce, sperando, chissà, che il suono si perdesse, potesse sfuggire a tutti, affinché egli potesse sentirsene liberato senza assumersene alcuna responsabilità".

Dopo aver preso coscienza della dislessia del figlio attraverso gli occhi del padre, veniamo a conoscere, nel corso del romanzo, in maniera molto obiettiva e reale, l'atmosfera, il clima, il vuoto che si possono creare attorno ad un ragazzino "diversamente abile". Trapela, ad esempio, un'ignoranza di fondo nelle persone che non hanno mai avuto a che fare con individui anche solo "leggermente diversi": "le mamme dei bambini senza problemi vedevano in quella presenza degli handicappati accanto ai loro figli sani un pericolo oscuro, temevano il contagio."

Questo distacco può presentarsi, purtroppo, molto spesso anche nella vita reale, tuttavia ritengo sia positivo il messaggio che Pirro ci trasmette: innanzitutto il rapporto padre-figlio si mantiene, anzi, si rafforza, nonostante l'ostacolo della dislessia; secondariamente il padre riesce a rendere Umberto consapevole della sua diversità, e, contemporaneamente, lo spinge con successo ad accettare e a superare ciò per cui egli si sente così diverso dagli altri.


In "Attraente, originaleemotivamente pericoloso" si viene a conoscenza di una storia molto particolare e toccante: è l'autrice stessa, Barbara Jacobs, a raccontare di sé e della sua storia d'amore con un uomo affetto dalla sindrome di Asperger, Danny. Questa sindrome è una forma più o meno lieve in cui l'autismo si può manifestare; nel caso di Danny la disabilità non è molto evidente, infatti "era capace di guidare, correva come il vento e giocava a rugby, tutte abilità che aveva appreso." Tuttavia, in molte situazioni assomiglia ad un bambino: è ingenuo, dice tutto ciò che pensa, ha bisogno di dormire molto, non si rende conto di quando parla a sproposito, è senza cattiveria, e molte volte dimentica cose importanti.

Danny ha 32 anni, e, caratteristica molto bizzarra, non riesce a mantenere un lavoro stabile: nel giro di poco tempo passa, infatti, dal commercio di vini alla vendita di finestre, al servizio di barman in un locale notturno. Questo implica, quindi, una scarsa stabilità economica. Infatti, quando rimane disoccupato, non riesce a pagare nemmeno l'affitto del piccolo appartamento in cui vive, ed è Barbara ad offrirgli ben volentieri la sua dimora per un periodo. Più lo conosce, più si accorge, però, che è difficile convivere con la sindrome di Danny.

All'inizio Barbara non sa nulla a proposito di questa disabilità, è soltanto nel corso del romanzo che inizia ad entrare in contatto con una nuova realtà, via via che conosce Danny. Non appena si rende conto che i suoi tratti caratteristici fanno parte dello spettro autistico, Barbara compie delle ricerche approfondite in proposito, scoprendo che molte persone, purtroppo, ne sono affette.

Alcuni soggetti ne soffrono, e, come scopre la protagonista femminile della storia, "diventano i naturali bersagli dei bulli. Se sei un tipo strano e passivo, sarai inevitabilmente preso di mira, a meno che tu non riesca a trovare qualcuno che ti aiuti." Oppure, un altro problema è quello di isolarsi e di restare senza amici, proprio perché alcuni Asperger non hanno la minima idea di come ci si faccia degli amici, come afferma una ragazza su un sito Internet che l'autrice consulta: "sapevo come si faceva un budino di riso, sapevo anche come far sedere il mio cane, ma no avevo idea di come farmi degli amici!"

Al contrario, un ragazzo di ventisette anni dimostra che in realtà è possibile anche conviverci serenamente, infatti testimonia che per lui "la sindrome di Asperger è un dono. Se mi fosse chiesto di scegliere, non vorrei mai essere "normale". Il mondo appare più ricco e più profondo a chi sa vedere gli schemi nascosti dietro la superficie dei fenomeni".

Pur avendo scoperto la grande caratteristica di Danny, Barbara non se ne allontana, anzi, è sempre più affascinata dal modo ingenuo ed infantile con cui si comporta, e, senza accorgersene, se ne innamora. "Il mio cuore andò da lui: dolce, confuso Danny, luminoso come un raggio di sole, convinto di essere tra amici, che offriva da bere a tutte queste persone che lo disprezzavano". Inizia così un progressivo avvicinamento tra i due, e Barbara scopre anche i lati che rendono Danny eccessivamente infantile. Al bar, ad esempio, offre volentieri da bere a chiunque incontri, senza rendersi conto di essere considerato lo zimbello del luogo. Inoltre, quando il rapporto di coppia comincia a solidificarsi, Barbara è costretta a sopportare molteplici mancanze da parte sua: non si preoccupa affatto per lei, pensa solo ai propri interessi e non alle esigenze altrui, non capisce quando deve smetterla. Ma Barbara cerca sempre di comprenderlo, convinta che "ognuno ha una personalità unica. Danny era allegria e risate, malizia e pazzia, e, dopo che avevamo condiviso il suo segreto, non seppi più come fossi riuscita a stare senza di lui per mesi."

Alla fine del romanzo Barbara e Danny si lasciano, perché lui non è ancora pronto ad impegnarsi in modo serio e duraturo, "non era il tipo di uomo di cui ci si innamora". Nonostante ciò, l'autrice e protagonista di questa storia è riuscita ad appassionare, raccontando di una persona che in altri casi o in altre circostanze probabilmente si troverebbe ai limiti della società. Barbara vuole, quindi, "scuoterci dalla nostra compiacenza riguardo al significato di «normale»", dimostrando appunto che il confine tra normali e anormali, tra sani e malati, in realtà non è così netto.


Il libro "Diversabilità - Storie e dialoghi nell'anno europeo delle persone disabili" è frutto di un collage di testimonianze, esperienze, interviste, brani di alcuni romanzi, che gli autori Canevaro e Ianes hanno realizzato in occasione dell'Anno Europeo della Disabilità, il 2000. Non c'è, quindi, una storia con un filo conduttore, bensì troviamo considerazioni alquanto significative e propositive per quanto riguarda il vasto campo dei diversamente abili.  

Innanzitutto, gli autori sottolineano fin dalle prime pagine, in modo molto chiaro e preciso, come la differenza tra abili e diversamente abili non sia poi così netta, proprio perché "la normalità diventa pluralità di differenze, non uniformità fissa, definita attraverso standard."

Punto di partenza di un rapporto con una persona diversamente abile è, dunque, l'accoglierla come persona sana e non come malata, indifferentemente da quale sia la sua diversità. Di solito, invece, si tende ad identificare l'intero individuo con la sua diversità, con l'elemento che lo rende così "estraneo" a noi, dimenticando, tuttavia, che ognuno possiede delle sue peculiarità, delle sue capacità specifiche, anche se a prima vista possono passare inosservate.   Gli autori ci propongono, allora, un esempio, tratto dal romanzo "Per chi suono la campanella?", di Piazza: "la persona disabile è un individuo. Con una propria identità. Con una propria connotazione. Con delle caratteristiche proprie.[] Arriva in carrozzina, ma non è la carrozzina. Ha splendidi occhi azzurri, è un mago con i videogame, usa il computer come pochi e sa fare un sacco di altre cose che non si vedonosoprattutto se lo sguardo si ferma sulla carrozzina". Questa persona presenta, dunque, un deficit per quanto riguarda l'attività motoria, tuttavia ha anche sviluppato capacità di altro genere: probabilmente, davanti ad un computer, sarebbe molto più capace di individui che convenzionalmente si definiscono "normodotati". Paradossalmente, la situazione di partenza si capovolge, perché è il "normodotato" ad aver bisogno dell'"handicappato", il quale riesce a colmare la mancanza della persona sana davanti ad un computer. Anziché "disabile", o "handicappato", termini che presentano entrambi connotazioni negative, gli autori parlano di "diversabile", "un termine propositivo, che ci suona bene perché mette in evidenza l'essere diversamente abili di molte persone con deficit" . Ovviamente, è necessario fare una distinzione tra i diversamente abili con problemi fisici e quelli che, invece, presentano una patologia dal punto di vista psichico. E' molto più facile, infatti, individuare e sviluppare le "isole di abilità" dei primi rispetto a quelle dei secondi: non per questo, però, bisogna abbandonare ogni tentativo di miglioramento della vita di questi ultimi. I progressi e i risultati a cui i diversamente abili psichici possono mirare sono differenti, ma non per questo meno importanti. Si tratta, ad esempio, di piccoli gesti quotidiani che, se raggiunti, offrono loro un minimo di autonomia, come soffiarsi il naso da soli, legarsi i lacci delle scarpe, infilarsi una maglietta, e così via.

Inoltre, indifferentemente dal tipo di deficit che una persona presenta, imparando a conoscerla, riusciremo innanzitutto a farla sentire meno sola, e penso che chiunque vi abbia diritto. Successivamente, impareremo a conoscere meglio anche noi stessi, perché ci troveremo di fronte ad una situazione non comune e non facilmente gestibile: saremo, quindi, costretti a tirare fuori i nostri lati migliori e le nostre capacità per instaurare un rapporto con un diversamente abile. Si parla, dunque, di "diversabilità nel senso che queste persone hanno modi di funzionare diversi da noi e sviluppano interessi, passioni e abilità che a volte noi facciamo fatica a condividere ma che possiamo riconoscere e vedere". Dalla cooperazione tra abile e diversamente abile possono nascere rapporti di amicizia, di complicità, di stima e rispetto, addirittura di amore.

Ci si domanda, allora, perché chi ha un deficit, di qualunque tipo esso sia, sia solitamente lasciato in disparte, senza considerare che anche lui è un essere umano simile a noi. Da qualche tempo, per fortuna, molti si stanno occupando di integrazione tra abili e diversamente abili. Trovo che questo sia eccezionalmente positivo: per chi non ha sperimentato, almeno in parte, l'integrazione con diversamente abili, la questione può sembrare banale e di poca importanza; tuttavia è proprio questa che permette di crescere, di maturare, di riflettere, tanto al diversamente abile quanto all'abile. Infatti, "quasi mai si pensa che l'integrazione non è solo l'accoglienza da parte della «normalità» del «diverso», ma anche il «diverso» deve accogliere la «normalità». Il diversabile deve accettare i propri deficit, averne consapevolezza, e fare in modo che non influenzino negativamente il rapporto con un'altra persona, che a sua volta si sforza di fare altrettanto: entrambi devono accettare i propri limiti".    




TEDESCO

Im Roman "Crazy" ist Benjamin, ein spastisch gelähmter Junge, der Protagonist. Er hat oft das Internat wechseln müssen und hat es niemals geschafft, sich wirklich zu integrieren. Der Roman beginnt mit der Beschreibung des ersten Schultages, von der Angst geprägt, wieder zu scheitern, und von der Resignation, noch einmal keine freundlichen Menschen zu finden.

Die Umgebung, in der er sich befindet, lässt ihn aber seine Meinung ändern: Benny lernt neue Schüler kennen, die ihn in Bezug auf seine Behinderung nicht ausschließen.



«Hast du wieder Komplexe wegen deiner blöden Behinderung? Nimm es doch nicht so schwer. Wir sind alle behindert.» (Lebert, Benjamin; "Crazy"; Goldmann Manhattan; Köln; 2001; Seite 24-25.)

Für diese Jugendliche gibt es aber keinen wesentlichen Unterschied zwischen ihnen und Benjamin, weil jedermann seine Schwächen hat, obwohl sie normale Jugendliche sind. Einer von denen behauptet z. B. , dass er sich anders fühlt, weil er wegen seiner Schüchternheit und seiner Zurückhaltung nicht leicht Freunde finden kann.

"Ich bin anders, weißt du, [] Einfach anders. Die Leute mögen keine Menschen, die anders sind. So ist das. Von den Menschen werde ich nicht beachtet. Sie mögen mich nicht." (ibidem, S. 88-89.)

Seine Freunde akzeptieren ihn aber, so wie er ist, weil die Eigenheiten und Merkmale jedes Menschen ihn als einzartig erscheinen lassen.

In einem Menschen gibt es nicht nur Schwächen: Jeder hat nämlich seine Eigenschaften und Talente, aus diesem Grund sind die Protagonisten fest davon überzeugt,

"dass wir alle Helden sind". (ibidem, S. 25.)

Obwohl Benny von seinen neuen Freunden akzeptiert wird, bemerkt man aber im Laufe des Romans, dass es für ihn selbst schwierig ist, seine Behinderung zu akzeptieren. Er kann sie nämlich nicht definieren, und das bringt ihn in Schwierigkeiten, was die Beziehung zu den anderen betrifft.

"Ich will nicht behindert sein. [] Ich möchte wissen, was ich bin. [] Alle wissen es: Ein Blinder kann sagen, er ist blind; ein Tauber kann sagen, er ist taub; und ein Krüppel kann verdammt noch mal sagen, er ist ein Krüppel. [] Ich kann nur sagen, ich bin halbseitengelähmt. [] Wie hört sich das denn? Die meisten Menschen halten mich ohnehin für einen Krüppel. Und die wenigen anderen halten mich für einen ganz normalen Menschen". (ibidem, S. 41.)

Benjamin findet keine passende "Definition" für sich selbst, und seiner Meinung nach entfernt ihn das von den anderen, das macht ihn einsam und isoliert ihn. Nur in seiner Familie fühlt er sich akzeptiert und geborgen. Da braucht er keine Erklärung oder Rechtfertigung.

"Wenn du behinderst bist, ist das schwer. Da neigst du dazu, dich unter dem Rock der Mutter zu verstecken. Ruhen. Atmen. Schlafen" . (ibidem, S. 52.)

Benjamins größte Angst ist die, keine wahre Beziehung zu seinen Freunden herzustellen, vor allem zu den Mädchen. In diesem Zusammenhang ist der Dialog zwischen dem Protagonisten und Marie sehr wichtig. Marie ist ein gleichaltriges Mädchen, das sich zu ihm hingezogen fühlt, obwohl er behindert ist.

«Man hat mir erzählt, Krüppel seien auch nur Menschen».

«Komisch, dass man dir soviel erzählt».

«Mir hat man nie etwas erzählt. Ich musste alles selbst herausfinden. Aber gut. Du hast recht. Krüppel sind auch nur Menschen. Wenn auch ein wenig seltsame». (ibidem, S. 76.)

Für Marie ist Benjamin vor allem ein Mensch, ein Individuum mit seiner Würde und seinem Charme, und das verbindet sie zutiefst.

Langsam wird der Junge immer selbstsicher und beginnt, sich als einzigartiger und besonderer Mensch zu fühlen, auch dank der großen Stütze von seinen Freunden. Zusammen erleben sie Abenteuer und machen Erfahrungen, die zum gegenseitigen Kennenlernen wesentlich beitragen und die Beziehung vertiefen. Gegen Ende des Romans kommt einer der bedeutungsvollsten Dialoge zum Ausdruck:

«Ein Held?[] Sind Krüppel denn Helden?»

«Krüppel nicht, [] aber du bist ein Held.».

«Und warum?»

«Weil durch dich das Leben spricht». (ibidem, S. 130.)

Diese Jugendlichen setzen sich mit dem Problem der Behinderung auf eine berührende Weise auseinander und schließlich gelingt es ihnen, Benny das Gefühl zu vermitteln, trotz der Behinderung ein wertvolles und wichtiges Mitglied der Gemeinschaft zu sein.


In Von der Grϋns Jugendroman "Vorstadtkrokodile" sind die Protagonisten einige sorglose Jugendliche, die ihre Freizeit mit den für ihr Alter ϋblichen Hobbys verbringen, wie Radtouren und Wettrennen. Gleichzeitig widmen sie sich dem Aufbau und Absicherung einer Clique.

Einer von ihnen, u.z. Hannes, schließt Freunschaft mit Kurt, der behindert ist und auf den Rollstuhl angewiesen ist. Zuerst wird Kurt von den anderen nicht akzeptiert, sondern er wird von den einzelnen Mitgliedern der Gruppe abgelehnt und nur von Hannes verteidigt:

"Kurt ist kein Krüppel [] er kann nur nicht laufenund im Kopf hat er genau so viel wie wir alle zusammen, dass ihr es nur wisst". ( Von der Grün, Max; "Vorstadtkrokodile"; Omnibus; Műnchen; 2002; S. 39.)

Die anderen versuchen aber nie, einige Zeit mit ihm zu verbringen und betrachten ihn nur als eine Last:

"Der Kurt muss immer geschoben werden, was sollen wir mit so einem. [] Wenn wir den bei uns haben, dann können wir nicht mehr Fahrrad fahren , dann müssen wir immer Rücksicht nehmenFahrrad kann er auch nicht fahren". (ibidem; S. 39.)

Dann ändert sich die Situation und es ist berührend, wie diese Jugendlichen Kurt langsam annehmen und ihm Zuneigung zeigen, nachdem sie ihm eine Probezeit gewähnt haben. Am Ende betrachten sie ihn als Teil ihrer Gruppe:

"Mit der Zeit machte es ihnen sogar Spaβ, den Rollstuhl zu schieben". (ibidem; S. 65.)

Sie zeigen dann eine große Anpassungsfähigkeit, indem sie sogar ihre Hobbys und Aktivitäten ändern, damit auch er daran teilnehmen kann. Die Lage verbessert sich für alle, sowohl für die normalen Jugendlichen als auch für den Behinderten. Alle haben die Möglichkeit, sich mit einer unbekannten Welt zu konfrontieren und also neue Lebensweisen kennen zu lernen.

Im Roman kommt ein anderes Element klar zum Ausdruck, das meiner Meinung nach bedeutungsvoll ist: Kurt beweist seinen neuen Freunden, dass er für sie keine Last ist und zeigt ihnen seine Fähigkeiten und Talente. Langsam werden sie sich dessen bewusst, dass sie Kurt sogar brauchen:

"Weiβt du, Frank, ihr könnt rumlaufen, deshalb seid ihr so ungeduldig. Ich muss ständig in meinem Rollstuhl sitzen und warten, bis mich einer wohin schiebt, da lernt man schon das Warten". (ibidem; S. 83.)

Und so verkehrt sich die Situation total um: Es ist nicht mehr nur Kurt, der die anderen braucht, sondern auch die anderen Mitglieder der Gruppe brauchen ihm. Ihnen fehlen nämlich jene Eigenschaffen wie Ruhe, Geduld, Scharfsinn, die sich der Protagonist aufgrund seiner Behinderung erworben hat:

"Wenn Kurt so sprach, konnte man vergessen, dass er auch ein Junge war wie sie, dann machte er den Eindruck, als sei er schon erwachsen". (ibidem; S. 84.)

Also haben sich normale Menschen und Behinderte ergänzt, ohne sich dessen bewusst zu werden: auf diese Weise stellt jeder seine Fähigkeiten, seine Werte und seine Kraft den anderen zur Verfügung. Kurt wird sogar verteidigt und seine Rechte werden geltend gemacht:

"Haben Sie keine Auffahrrampe für einen Rollstuhl? Kommen zu ihnen nur Gesunde? [] Wenn nur einer kommt und eine Aussage machen will und in einem Rollstuhl sitzt, was macht ihr denn mit dem?" (ibidem; S. 146.)

Dieses Beispiel zeugt meiner Meinung nach von der tiefen engen Freundschaft, die sich am Ende entwickelt hat.

Dieses Werk zeigt also die Entwicklung dieser Jugendlichen von der anfänglichen Ablehnung bis zur tiefen Freunschaft. Daraus geht klar hervor, dass die Ablehnung eines Menschen oft von der Angst vor einer anderen Welt, die man nicht kennt, verursacht wird. Diese Welt erweist sich aber als freundlich und offen, wenn man sich ihr nähert.












TRADUZIONE

Nel romanzo "Crazy" il protagonista è Benjamin, un ragazzo spastico. Egli ha dovuto più volte cambiare istituto in cui studiare, senza riuscire mai ad integrarsi veramente. Il romanzo inizia con la descrizione del primo giorno in un nuovo istituo, caratterizzato dalla paura di fallire nuovamente e dalla rassegnazione di non trovare nemmeno qui delle persone amiche.

L'ambiente in cui si ritrova gli fa tuttavia cambiare idea: Benny conosce dei nuovi compagni di scuola, i quali non lo escludono a causa della sua disabilità.

«Ti fai ancora dei complessi a causa del tuo stupido ostacolo? Dai, non prenderla così male. Siamo tutti in qualche modo ostacolati.» (Lebert, Benjamin; "Crazy"; Goldmann Manhattan; Köln; 2001; pgg. 24-25.)

Per questi ragazzi non ci sono sostanziali differenze tra loro e Benjamin, perché ciascuno di essi, pur essendo abile, presenta dei punti deboli. Uno di questi, ad esempio, afferma di sentirsi diverso dagli altri, perché a causa della sua timidezza e della sua riservatezza non riesce a trovare facilmente degli amici.

"Io sono diverso, sai, [] Proprio diverso. Le persone non gradiscono quelli che sono diversi. E' così. Io non vengo considerato dalla gente. Non mi vogliono." (ibidem, pgg. 88-89.)

I suoi amici, però, lo vogliono così com'è, perché le particolarità e le caratteristiche di ciascuno lo fanno apparire unico.

In un individuo non ci sono solo debolezze: ognuno ha, infatti, qualità e talenti, per cui i personaggi sono convinti

"che siamo tutti eroi". (ibidem, pg. 25.)

Pur essendo ben accettato dai suoi nuovi amici, nel corso del romanzo si nota, però, che è Benny stesso che accetta la sua disabilità con difficoltà. Egli non riesce infatti a definirla, e questo lo porta ad avere difficoltà per quanto riguarda i rapporti con gli altri.

"Non voglio essere invalido. [] Vorrei sapere cosa sono. [] Tutti lo sanno: un cieco può dire che è cieco; un sordo può dire che è sordo; e uno storpio, dannazione, può dire che è uno storpio. [] Io posso solo dire che sono emiplegico. [] Come suona questo? La maggior parte della gente mi prende comunque per uno storpio. E i pochi altri mi prendono per una persona normale". (ibidem, pg. 41.)

Benjamin non trova una "definizione" accettabile per se stesso, e secondo lui ciò lo allontana dagli altri, lo fa sentire solo e lo isola. Solo nella sua famiglia si sente accettato e protetto. Qui non ha bisogno di dare spiegazioni né giustificazioni.

"Se sei disabile, è dura. Allora ti abbassi al nasconderti sotto la gonna della mamma. Riposare. Respirare. Dormire" . (ibidem, pg. 52.)

La paura più forte di Benjamin è quella di non riuscire ad instaurare dei rapporti con i suoi coetanei, con le ragazze soprattutto. A questo proposito molto importante è il dialogo tra il protagonista e Marie. Marie è una sua coetanea, la quale si sente attratta da lui, nonostante la sua disabilità.

«Mi hanno detto che i disabili sono solo persone».

«Strano che ti hanno raccontato così tanto».



«Non mi è mai stato raccontato niente. Dovevo sempre scoprire tutto da sola. Ma va bene. Hai ragione. I disabili sono solo persone. Anche se un po' insolite». (ibidem, pg. 76.)

Per Marie Benjamin è prima di tutto una persona, un individuo con la propria dignità ed il proprio fascino, e ciò li unisce profondamente.

Lentamente, il ragazzo diventa sempre più sicuro di se stesso e inizia a sentirsi una persona unica e speciale, anche grazie al grande sostegno dei suoi amici. Insieme vivono avventure e fanno esperienze che contribuiscono notevolmente alla reciproca conoscenza, e i rapporti si rafforzano. Verso la fine del romanzo, si trova uno dei dialoghi più significativi:

«Un eroe? [] Ma i disabili sono eroi?»

«I disabili no, [] ma tu sei un eroe».

«E perché?»

«Perché attraverso di te parla la vita». (ibidem, pg. 130.)

Questi ragazzi affrontano il problema della disabilità in modo commovente e toccante, e alla fine riescono a trasmettere a Benny la convinzione di essere, nonostante la sua disabilità, un prezioso ed importante compagno del gruppo.


Nel romanzo per ragazzi "Vorstadtkrokodile" - di Von der Grϋn - i protagonisti sono degli adolescenti spensierati, i quali riempiono il loro tempo libero con passatempi comuni per questa età, come i giri in bicicletta e le gare di corsa. Contemporaneamente, si dedicano anche alla costruzione e al rifugio per la loro banda.

Uno di loro, Hannes, stringe un'amicizia con Kurt, un ragazzo diversamente abile e che è costretto alla sedia a rotelle, e desidera inserirlo nel suo gruppo. Dapprima Kurt non viene assolutamente accettato, anzi, è rifiutato dai singoli membri e difeso solo da Hannes:

"Kurt non è un handicappato [] è solo che lui non può camminaree in testa ha tanto quanto tutti noi messi assieme, che voi lo sappiate". ( Von der Grün, Max; "Vorstadtkrokodile"; Omnibus; Műnchen; 2002; pg. 39.)

Gli altri, però, non provano mai a passare del tempo con lui e lo considerano solo come un peso:

"Kurt dev'essere sempre spinto, cosa dovremmo fare noi con uno così. [] Se lo prendiamo con noi, allora non potremo più andare in bicicletta, allora dovremo sempre avere riguardo per lui Non può neanche andare in bici". (ibidem; pg. 39.)

Dopodiché la situazione cambia ed è toccante come questi ragazzi un po' alla volta accettino Kurt e gli si affezionino, dopo avergli concesso un tempo di prova. Alla fine lo considerano come parte del loro gruppo:

"Col tempo si divertivano a spingere la carrozzina". (ibidem; pg. 65.)

Essi dimostrano, allora, una grande capacità di adattarsi, modificando i loro hobby e le loro attività per lui, in modo da far partecipare anche lui. Le condizioni migliorano per entrambi, sia per i ragazzi abili che diversamente abili. Tutti hanno la possibilità di confrontarsi con un mondo a loro fino a quel momento sconosciuto, e di apprendere, dunque, nuovi modi di vivere.

Nel romanzo traspare chiaramente un altro elemento a mio avviso molto significativo: Kurt dimostra ai suoi nuovi amici di non essere un peso e mette in luce le sue doti e i suoi talenti. Lentamente si rendono dunque conto di aver bisogno proprio di Kurt:

"Sai, Frank, voi potete andare in giro, perciò siete così impazienti. Io devo stare fermo nella mia carrozzina e aspettare che qualcuno mi spinga da qualche parte, allora si impara bene ad aspettare". (ibidem; pg. 83.)

E così la situazione si capovolge: non è più solo Kurt ad aver bisogno degli altri, bensì anche gli altri componenti del gruppo hanno bisogno di lui. A loro mancano, infatti, delle qualità come la calma, la pazienza, l'arguzia, che il protagonista ha acquistato in base alla sua disabilità:

"Quando Kurt parlava così, si poteva dimenticare che era un ragazzino come noi, allora dava l'impressione che fosse già diventato adulto". (ibidem; pg. 84.)

Ecco dunque che persone abili e diversamente abili si sono integrate tra loro senza nemmeno rendersene conto: in tal modo, ognuno mette a disposizione degli altri le sue qualità, i suoi punti valori e la sua forza. Kurt viene addirittura difeso e i suoi diritti vengono fatti valere:

"Non avete una scala per le carrozzine? Vengono solo sani qui da voi? [] Quando arriva qualcuno e vuole fare una denuncia e siede in una carrozzina, allora cosa fate con lui?" (ibidem; pg. 146.)

Questo esempio dimostra, a mio avviso, la stretta e profonda amicizia che alla fine si è sviluppata.

Quest'opera mostra, allora, lo sviluppo di questi ragazzi da un rifiuto iniziale fino all'amicizia profonda. Da ciò si può intuire che il rifiuto di una persona è causato dalla paura di un mondo che non si conosce. Questo mondo risulta, però, amico e aperto a chi vi si avvicina.




















Bibliografia


Filosofia:


ADLER, ALFRED; "Psicanalisi e filosofia"; Editrice La Scuola; Brescia; 1971;


J. DE AJURIAGUERRA; "Manuale di psichiatria del bambino"; Masson Italia Editori; Milano ;1984; capitolo "Il concetto di handicap fisico e la personalità dell'infermo";


A cura di MASCHIETTO, GIULIANO e ZABONATI, ANNALISA; "Psicopatologia del bambino disabile grave ed il suo recupero"; Atti dell'Incontro di Studio Interprovinciale; Mestre; 1988;


SALVINI, ALESSANDRO; "Sviluppo deviante e problemi d'intervento"; Patron Editore; Bologna; 1982; capitolo a cura di GENTE, ADOLFO; "Considerazioni sull'inserimento psico-sociale del bambino diverso".



Italiano:


PIRRO, UGO; "Mio figlio non sa leggere"; Rizzoli; Milano; 1981;


CANEVARO, ANDREA e IANES, DARIO; "Diversabilità - Storie e dialoghi nell'anno europeo delle persone disabili"; Erickson; Gardolo di Trento; 2003;


JACOBS, BARBARA; "Attraente, originale emotivamente pericoloso"; Erickson; Gardolo di Trento; 2004.


Tedesco:


VON DER GRÜN, MAX; "Vorstadtkrokodile"; Omnibus; Műnchen; 2002;


LEBERT, BENJAMIN; "Crazy"; Goldmann Manhattan; Köln; 2001.











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