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La parola che fotografa: esempi di fotografia letteraria




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La parola che fotografa: esempi di fotografia letteraria



Coloro che hanno studiato a fondo la questione relativa all'origine della fotografia, ne hanno rinvenuto un punto fondamentale nello stretto legame che si instaura tra arte e scienza nel corso del Rinascimento. La fotografia sarebbe in questo senso il frutto di un percorso di evoluzione dell'arte verso il naturalismo: quest'ultima si concentra nel desiderio di raggiungere la più assoluta esattezza e verosimiglianza al modello naturale nella rappresentazione che ne dà, conformando con ciò i propri ideali estetici a quelli della scienza La preoccupazione maggiore dell'arte e della scienza nell'Ottocento è la conoscenza dei fenomeni, la loro registrazione oggettiva, e l'invenzione della fotografia deriva e risponde perfettamente a  questa esigenza laddove nasce e si pone come nuovo mezzo di visualizzazione e di riproduzione dei fenomeni.

Essa incarna così perfettamente la visione della realtà ottocentesca che si impone non solo a livello delle arti visive, ma si esprime concretamente anche in forme letterarie. Per quanto riguarda lo specifico ambito della letteratura italiana, la corrente verista è da collocarsi senza alcun dubbio in questo quadro.

Tuttavia, se è vero che, come abbiamo detto all'inizio, esiste un pensiero fotografico che ha origine con Platone, il Verismo italiano e il Naturalismo francese non possono essere i primi esempi letterari di realismo (in senso lato).

La mia indagine a proposito della parola che fotografa ha individuato in Eroda e Petronio due autori ai quali, per determinate caratteristiche è possibile attribuire, se non una perfetta adesione, almeno un avvicinamento a questo indirizzo letterario.



Eroda e I Mimiambi


Fino al 1891 Eroda (il nome è attestato anche nelle forme Erode ed Eronda) era noto agli studiosi solo per qualche esiguo frammento tramandato da Stobeo, che ne parla come autore di "Mimiambi", cioè di mimi scritti in giambi: in quell'anno F.G.Kenyon pubblicò un papiro egiziano contenente otto componimenti (i primi sette interi e l'ottavo frammentario) di questo poeta. L'avvenimento venne salutato entusiasticamente dalla cultura europea, sia per l'eccezionalità di un ritrovamento così esteso, sia perché le tendenze letterarie allora dominanti (era in piena fioritura la stagione del Naturalismo francese e del verismo italiano) parevano singolarmente rispecchiarsi nelle forme e nei contenuti dell'opera di Eroda, caratterizzata almeno in apparenza da un vivace realismo nella descrizione dei personaggi e delle situazioni, nonché dai toni colloquiali della lingua adoperata.

Il linguaggio è ionico e gli argomenti di vita quotidiana, articolati da brevi dialoghi senza intreccio in cui parlano personaggi delle classi sociali più umili. Probabilmente erano destinati alla lettura e non alla rappresentazione. Dai mimiambi emerge il ritratto di un piccolo mondo plebeo, osservato con minuzia e freddezza nella sua meschinità. Riboccano le espressioni dialettali e volgari, tuttavia Eroda non è un "artista popolare" che trae la sua materia dall'"osservazione diretta". Nonostante la sua arte appaia disadorna e realistica, essa nasce da un'ispirazione puramente letteraria ed ha perciò carattere colto e "riflesso".

In realtà la scelta stessa del metro (il coliambo ipponatteo) per un genere che aveva fino ad allora conosciuto l'impiego della prosa (vedi Sofrone ) o dell'esametro (vedi Teocrito) comporta quasi inevitabilmente anche un recupero dell'antica lirica giambica in termini di linguaggio e di stile e rivela, dunque, il carattere letterario dei componimenti di Eroda, in cui dunque il realismo è da leggersi in chiave sostanzialmente differente da quello che intenderemo oggi.


Il realismo di Eroda (riconducibile a quello già presente nel V aC nelle commedie di Epicàrmo e nei mimi di Sòfrone)è , come nel suo modello dichiarato, Ipponatte, e in quello più vicino, il mimo teocriteo, un'operazione letteraria e stilizzata. Tipicamente ellenistica risulta l'accentuazione parodica della dismisura tra letterarietà del metro e della lingua ionica e umiltà delle situazioni e delle psicologie rappresentate, che rinviano volutamente alle situazioni stereotipate delle 'maschere' della Commedia Nuova.

La rilevanza di Eroda sta appunto nel suo testimoniare la grande diffusione di un genere oscillante tra colto e popolaresco, che di certo - come sappiamo da vari testi papiracei - ebbe vasta diffusione nel pubblico e sostituì le ormai desuete tragedia e commedia


Da alcune allusioni presenti nel primo dei "Mimiambi" si è tentato di ricavare qualche elemento utile all'inquadramento cronologico di questo poeta: così la menzione di un "santuario dei divini fratelli" è stata messa in rapporto con l'istituzione del culto dedicato a Tolomeo Filadelfo ed Arsinoe, sua sposa sorella, mentre l'aggettivo crhstòs ("buono") subito dopo riferito al sovrano regnante, ha fatto pensare a Tolomeo Emergete (cioè "Benefattore"): il periodo che si ottiene interpretanto in tal modo questi riferimenti ha i suoi termini estremi nella morte di Arsinoe (270 a.C.) e nel regno dell'Evergete (246-211 a.C.).

Nel Mimiambo I (la Mezzana) la vecchia Gillide si reca a casa della giovane sposa metriche in assenza del marito di questa e tenta di indurla ad assecondare le profferte di uno spasimante, ma si vede opporre dalla fanciulla un rifiuto tanto cortese quanto fermo. Un personaggio altrettanto sordido è il protagonista del Mimiambo II ( il Lenone), in cui battano, tenutario di un bordello, pronuncia, con sapida parodia dello stile giudiziario, un'arringa contro un cliente penetrato a viva forza nel suo.onorato esercizio commerciale. Nel Mimiambo III (il Maestro di scuola) Metrotima, madre di un ragazzo scioperato e furfante di nome Cottalo, affida il figlio alle cure di lamprisco, maestro dalle maniere piuttosto spicce, informandolo delle prodezze del recalcitrante allievo: sottoposto ad un'energica cura a suon di nerbate, Cottalo riesce però a fuggire e, da lontano, fa sberleffi al maestro e alla madre che, sconsolata, va a prendere dei ceppi, per incatenare il figlio e costringerlo a rimanere a scuola. Il Mimiambo IV (Donne che sacrificano ad Asclepio) riprende il tema delle Siracusane teocritee: due amiche, Cinnò e Coccala, si recano di buon mattino nel santuario di Asclepio a Cos per recare offerte al dio, e la visita offre il pretesto per un'ekphrasis delle opere d'arte che adornano il tempio, dinnanzi alle quali le donne sostano con stupita ammirazione. Nel Mimiambo V (la Gelosa) Bitinna, una matura ma ancor vogliosa signora, vorrebbe torturare lo schiavo Gastrone, che è anche suo amante, accusandolo di infedeltà, ma viene dissuasa dall'ancella Cidilla. Ancor più scabroso è l'argomento del Mimiambo VI (le Amiche a colloquio) in cui due donne di Efeso, Corittò e Metrò, conversano su un fallo di cuoio per signore depravate, costruito dal calzolaio Cerdone. Costui è anche protagonista del Mimiambo VII (il Calzolaio) che con i suoi 129 coliambi è il più lungo della raccolta. Vi ritorna anche la figura di Metrò, la quale ha condotto nella bottega del valente artigiano due sue amiche per fare degli acquisti. Il dialogo, caratterizzato dalla lunga contrattazione, dalle civetterie delle clienti e dall'astuta galanteria del ciabattino, risulta assai vivace e umoristico, ed è indubbiamente fra le cose migliori di eroda. Carattere assai diverso dagli altri componimenti del corpus ha il Mimiambo VIII (il Sogno), giuntoci assai lacunoso e , quindi, di interpretazione piuttosto problematica. In esso il poeta narra di aver sognato se stesso nell'atto di trascinare via un caprone, che divorava le foglie di quercia di un bosco sacro e veniva perciò sacrificato da alcuni pastori a Dioniso, presente al rito in sembianze di giovane; lo stesso dio ordinava poi ai celebranti di scuoiare l'animale, di gonfiare la pelle a mò di otre e di saltarvi sopra a turno, cercando di restarvi in equilibrio. Risulta vincitore lo stesso eroda ma, al momento di ricevere il premio, viene minacciato da un collerico vecchio ed è costretto a dividerlo con lui. L'interpretazione del sogno è data nei versi finali, che sono i più mutili, ma pare possa interpretarsi nel senso che il vecchio sia Ipponatte e i pastori debbano identificarsi in altri poeti avversari di Eroda.





Il realismo in Petronio: La cena di Trimalchione


La forte carica di realismo costituisce senza alcun dubbio l'aspetto più originale del Satyricon. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, la vita avventurosa di Encolpio, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi che non sono visti astrattamente e fuori dal tempo, come in gran parte del romanzo greco. Sono luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, i riti misterici, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio.

Al di là di questo relismo realismo relativo agli scenari Petronio mostra anche un certo interesse per un realismo che potremo definire sociale, anche se è probabile che egli non avesse ben chiaro il concetto di società, come lo intendiamo oggi, e che certamente è da escludere, come vedremo anche in seguito, qualunque intento di denunicia in questo senso.


Il realismo entra nel Satyricon soprattutto come forza antagonistica del sublime letterario e dei valori che vi sono associati, di cui Encolpio e compagni sono, in apparenza, portatori. Petronio presenta e ritrae un mondo corrotto, popolato da personaggi squallidi e anonimi, che traggono soddisfazione solo dai piaceri più essenziali ed immediati. Insomma, egli raffigura una fascia sociale che non sembra animata da alcuna aspirazione ideale e che nella cultura del tempo non trovava evidentemente spazio. Ai grandi miti eroici, ai modelli alti, dell'epica e della tragedia, che il protagonista-narratore si illude di poter rivivere, si contrappone la forza materiale delle cose, la fisicità del corpo con i suoi istinti: cibo, sesso, denaro, sono temi "bassi" elementi di una sceneggiatura del realismo che si oppone, come abbiamo detto, al sublime letterario.


Eppure Petronio rappresenta tutto questo senza compiacimento, anzi quasi con distacco, prendendo le dovute distanze, ma non senza ironia e malizia: egli, cioè, non offre ai suoi lettori nessuno strumento di giudizio, e non potrebbe essere altrimenti, in una narrazione condotta in prima persona da un personaggio che è dentro fino al collo in quel mondo sregolato. L'originalità del realismo di Petronio sta così non tanto nell'offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell'offrirci una visione del reale che è critica quanto spregiudicata e disincantata: ma di una critica 'estetica', e non di natura sociale o politica, senza le stilizzazioni e le convenzioni tipiche della commedia e senza i filtri moralistici propri della satira: ciò che egli veramente disapprova è soltanto il cattivo gusto.


Il vivo interesse che l'autore ha per la mentalità delle classi sociali è evidente soprattutto nell'episodio della Cena di Trimalchione, dove esso si esplica anche in un abile mimetismo linguistico: abbiamo qui una preziosa fonte di informazione sulla lingua d'uso popolare, che non esiste altrove nella cultura latina, se non all'interno di attestazioni subletterarie come i graffiti di Pompei ,delle glosse (parole rare, perché non letterarie, recepite dai grammatici e dai lessicografi della tarda latinità), e da quelle tracce di lingua d'uso che talvolta, non senza fatica, recuperiamo da poeti quali Plauto o Catullo.

E' significativo sottolineare che l'episodio in questione è la parte più integra che ci sia stata tramandata: è chiaro che esso esercitava, su chi ha manipolato il testo di Petronio, un'attrattiva particolare, proprio in quanto testimonianza unica ed irripetibile della società romana della prima epoca imperiale.


La scena che ci si presenta, è quella di un banchetto, al quale Encolpio e i suoi amici sono stati invitati. Trimalchione, il padrone di casa è un ex schiavo, parvenu per eccellenza: in tutte le sue manifestazioni tradisce la bassezza dell'origine, la volgarità della sua educazione, la grossolanità dei suoi gusti. Il suo amore per l'eccesso lo ha talvolta fatto identificare con la feroce caricatura di Nerone, ma in lui si deve piuttosto rintracciare la satira pungente di tutti quei liberti imperiali, i quali, con i mezzi più bassi (Trimalchione stesso dichiara pubblicamente di avere iniziato la carriera concedendo il suo corpo al padrone e alla padrona) erano riusciti ad ammassare ricchezze favolose. Eppure, Trimalchione è uomo che ha le sue particolari 'qualità': ha l'arte di condurre in porto gli affari ,conosce il mondo, e soprattutto è ottimista ad oltranza e, come tutti i grandi affaristi, mai si lascia scoraggiare dai rovesci della sorte. E' Tenace, costante, bonario.

In lui, nella sua affermazione sociale come simbolo di quella di tutti i liberti,  Petronio celebra ancora una volta la sopraffazione dei valori ideali della cultura sublime la decadenza dell'antico costume romano, e il trionfo delle forze materiali, della pragmaticità, della rozzezza.


Il carattere bonario di Trimalchione trova riscontro nella caratterizzazione del personaggio di sua moglie Fortunata: è lei la vera padrona di casa, quella a cui il marito risulta evidentemente "sottomesso". La descrizione della donna è da segnalare anche per un eccellente elemento stilistico che la caratterizza: il cambio di prospettiva. Fortunata infatti ci è direttamente descritta attraverso il discorso che uno dei convitati fa con il suo vicino di mensa:


'Ti interessa sapere chi è quella donna che si vede correre qua e là?
E' Fortunata e conta i soldi del marito. Eppure fino a poco tempo fa chi era?
Non avresti accettato dalla sua mano neppure un pezzo di pane., ora, non si sa come, né perché è salita in alto. Per Trimalcione lei è tutto. Se gli dicesse che è notte a mezzogiorno, lui ci crederebbe. Lui non sa neppure quanto possiede, tanto è ricco. Ma lei lo sa bene e vuole sapere tutto. E' sbrigativa, sobria e di buonsenso. Pur essendo una casalinga linguacciuta, vale tanto oro quanta ne vedi.'



Già da queste poche righe possiamo comprendere molto su tale figura. Fortunata è una mater familias romana, ora ricca moglie di Trimalcione, in passato ella è appartenuta ad un ceto basso, e probabilmente ha vissuto molto miseramente. E' una donna carismatica che ha il perfetto controllo sulla casa, sulle entrate e sulle uscite del marito. L'esperienza passata ha sviluppato in lei la qualità del buon senso, con la quale amministra gli affari domestici.


Nel corso della narrazione emergono altre caratteristiche del personaggio: la forte vanità femminile nel mostrare con orgoglio i gioielli d'oro e d'argento puro all'amica, la moglie di Abinna; la altrettanto forte volgarità nel ridere e parlare dei proprio bisogni fisiologici; la capacità di ballare il cordace, un ballo sensuale e licenzioso, e il pronto rifiuto che rivolge al marito che la invita a dare una dimostrazione: danzare è una cosa stupida e bassa , che non si addice alla sua nuova signorilità. L'ex schiava ha preso coscienza della sua nuova condizione e non permette che venga intaccata la gravitas, la dignità, che ora le compete in virtù della ricchezza.



L'ultima immagine di Fortunata ce la dà lo stesso marito, che non può fare a meno di ricordare, pieno di gratitudine, un nobile gesto della sua donna, che la riscatta da ogni bassezza.
Racconta che una volta nel naufragio della sua prima spedizione commerciale era andato perso tutto quanto aveva investito. In quella occasione Fortunata aveva manifestato tutto l'affetto che nutriva per il marito. Non solo non l'aveva abbandonato, come molte altre avrebbero fatto, ma egli dice 'omne enim aurum suum, omnia vestimenta vendidit et mi centum aureos in manu posuit" ovvero    "vendette tutto il suo oro ed i suoi vestiti e mi mise in mano cento pezzi d'oro, che furono come un lievito per il mio capitale, che crebbe velocemente'.

Dunque anche per quanto riguarda il personaggio di Fortunata infine vengono messe in luce alcune caratteristiche nettamente positive.

In ultima analisi, vale la pena di evidenziare che la narrazione si fa nettamente realistica anche riguardo la descrizione degli alimenti e delle varie portate: anche in questo senso Petronio  ci fornisce una testimonianza irripetibile, relativamente alle abitudini alimentari dei romani.

"Tornando all'antipasto, su un grande vassoio era sistemato un asinello, di bronzo corinzio, che portava una bisaccia a due tasche, delle quali l'una conteneva olive chiare, l'altra scure Dei piccoli sostegni, poi, saldati al piano del vassoio, sorreggevano dei ghiri spalmati di miele e cosparsi di polvere di papavero. Non mancavano anche delle salsicce che friggevano sopra una griglia d'argento e sotto la griglia prugne siriane con chicchi di melograno Seguì una portata : si trattava di un vassoio rotondo che aveva disposti, uno dopo l'altro, in circolo, i dodici segni zodiacali, sopra ciascuno dei quali il maestro di cucina aveva sistemato il cibo proprio e adatto al referente Accorsero poi saltellando a tempo di musica quattro camerieri e tolsero la parte superiore del trionfo. Compiuta questa operazione, scorgiamo nella parte più bassa pollame e ventri di scrofa ed in mezzo una lepre, provvista di ali, in modo da sembrare un Pegaso A questo tenne dietro un vassoio, sul quale era sistemato un cinghiale di grande mole, e per giunta fornito di un cappello, dalle cui zanne pendevano due cestini, fatti di foglie di palma intrecciate, ripieni l'uno di datteri freschi, l'altro di datteri secchi. Intorno al cinghiale, poi, dei porcellini fatti di pasta biscottata, dando l'impressione di stare attaccati alle mammelle, indicavano che il cinghiale era femmina (Trimalchione) non aveva ancora proferito l'ultima parola che un vassoio, contenente un maiale enorme, riempì la tavola centrale Il cuoco impugnò un coltello e, con gesto prudente, cominciò ad incidere il ventre del maiale da una parte e dall'altra. E subito dai tagli che si allargavano spontaneamente per la pressione del contenuto, rotolarono fuori salsicce e sanguinacci Fu poi portato un vitello lesso, disposto su un vassoio di duecento libbre, per di più con tanto di elmo e già era stato sistemato sulla tavola un trionfo contornato da alcune focacce, il cui centro era occupato da un Priapo, realizzato da un pasticcere, che secondo l'iconografia consueta teneva nel suo ampio grembo ogni sorta di frutti e di grappoli Seguirono degli stuzzica appetito : al posto dei soliti tordi, furono fatte girare delle galline ingrassate, una per ciascun commensale, e in più delle uova d'anatra incappucciate che Trimalchione ci pregò con grande insistenza di mangiare, sostenendo che erano galline senza ossa
Concesso quindi un momento di calma, Trimalchione fece servire i dolci, consistenti in tordi fatti di farina di segale impastata, farciti di uva passa e noci. Fecero loro seguito anche delle mele cotogne su cui erano confitte delle spine, in modo da sembrare dei ricci di mare"

Il Verismo e "Rosso Malpelo"


Le diffusione di Zola e della corrente naturalista giocò certamente un ruolo fondamentale nell'elaborazione della visione e della poetica verista anche se come vedremo, essa si svilupperà con una serie di prerogative differenti ed originali, coerentemente con il diverso clima culturale e la diversa realtà sociale che essa si apprestava a "fotografare".

Bisogna innanzitutto puntualizzare una cosa: il Verismo è una corrente letteraria che non esiste al di là dei suoi stessi teorici, Verga e Capuana, ai quali soltanto in seguito si aggiungerà, quasi a mò di discepolo, il più giovane De Roberto. Tutti gli altri scrittori (Fucini, la Serao, Pratesi, Valera) che talvolta si fanno rientrare in quest'ambito, sono accomunati unicamente dal riferimento ad una realtà non meglio definita , da un interesse per figure ed ambienti popolari, ma nulla hanno a che fare con con la matrice positivista e zoliana dalla quale mutuano, pur con le dovute rielaborazioni, gli scrittori veristi che abbiamo citato.



Impersonalità e regressione


Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorì, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
   Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
   Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine."



La "Prefazione ai Vinti" sopra riportata costituisce l'unico documento teorico che Verga abbia mai pubblicato a proposito del suo stile letterario. In esso emergono chiaramente i punti essenziali della poetica verista, primo fra tutti, quello dell'impersonalità. Essa viene intesa come "eclisse" dell'autore: egli deve necessariamente sparire dal narrato , non deve filtrare i fatti attraverso la sua "lente" , ma deve mettere il lettore "faccia a faccia" con il fatto "nudo e schietto". Il lettore deve seguire lo sviluppo di certe passioni come se non fossero raccontate ma si svolgessero di fronte a lui, drammaticamente. L'opera pertanto, deve sembrare "essersi fatta da sé". Con questa teoria dell'impersonalità però, Verga non dà una definizione filosofica dell'arte che neghi il rapporto creativo tra l'artista e l'opera (come intese erroneamente Croce, che nella sua polemica antiverista, si scagliò contro un idolo creato dalla sua immaginazione) , ma propone solo un principio di poetica; Verga sa bene che l'impersonalità è solo un procedimento espressivo, adottato per ottenere certi effetti artistici e che dietro c'è pur sempre l'artista che mette in atto quei procedimenti, anzi, proprio attraverso di essi mette all'opera il sigillo della sua personalità creatrice.

In relazione all'impersonalità e all'"eclisse" dell'autore si delinea anche la teoria della regressione del punto di vista narrativo entro il mondo rappresentato : i fatti saranno riferiti "colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare". Deve cioè scomparire il narratore tradizionale, portavoce dell'autore, e deve essere sostituito da un'anonima voce narrante che ha la visione del mondo e il modo di esprimersi dei personaggi stessi.

L'"eclisse" dell'autore porta con sé anche un processo di scarnificazione del racconto, di riduzione all'essenziale. Vengono eliminate le minute analisi psicologiche della narrativa romantica. Il processi delle passioni è ricostruito solo da pochi punti indispensabili. In un'altra lettera e Felice Cameroni Verga chiarirà che la psicologia si deve ricavare non dai profili dei personaggi costruiti dal narratore, ma dai loro semplici comportamenti, dai gesti e dalle parole.

Di qui deriva il rifiuto di una facile drammaticità, degli effetti romanzeschi plateali "il pepe della scena drammatica" come Verga lo definisce in una lettera a Capuana. Agli effetti romanzeschi si sostituisce una ricostruzione scientifica dei processi psicologici, fondata su una rigorosa consequenzialità logica e su rapporti necessari di causa ed effetto.


La visione del reale e il rapporto con Zola


Il principio dell'impersonalità trova ampia spiegazione nell'ambito dell'ideologia verista. Cosa induce Verga ad elaborarlo ed applicarlo così rigorosamente? Una risposta è presente all'interno della Prefazione ai Vinti che abbiamo analizzato sopra: "Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori dal campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, con i colori adatti." Verga ritiene dunque che l'autore debba allontanarsi dall'opera perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Ma per quale motivo Verga giunge a questa conclusione?

Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui unicamente dominata dalla "lotta per la vita", un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali , ma dall'interesse economico. Come legge di natura, questa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possano dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro, in un organizzazione sociale diversa e più giusta; né nel passato, nel ritornare a forme superate dal mondo moderno, e neppure nella visione trascendente (la sua visione è rigorosamente materialistica ed atea ed esclude ogni consolazione religiosa, ogni speranza di riscatto della negatività dell'esistente in un'altra vita).

Dunque ecco spiegata l'illegittimità del giudizio: se la realtà è data senza possibilità di modificazioni, è inutile per lo scrittore che la rappresenta, proporre alcunché. E' evidente come in questo senso, Verga sia il portatore di un forte conservatorismo, al quale è spesso associato un rifiuto esplicito e polemico verso qualunque tipo di ideologia progressista, democratica e socialista.



Avendo a questo punto chiarito perfettamente l'impostazione del pensiero verista, possiamo finalmente confrontarla con quella naturalista e specificamente zoliana. Le differenze sono evidenti : nei romanzi di Zola la voce che racconta riproduce di norma il modo di vedere e di esprimersi dell'autore, del borghese colto, che guarda dall'esterno e dall'alto la sua materia; e questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata, sia espliciti, sia impliciti. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto, e il narratore lo fa sentire esplicitamente. Alla tecnica dell'eclisse verista corrisponde in Zola il distacco dello scrittore scienziato che si allontana dalla realtà per esaminarla attraverso canoni oggettivi. A questa differenza sul piano tecnico corrisponde una profonda differenza di intenti accompagnata da una forte diversità di quelli che sono gli scenari socio-politici in cui i due letterati vivono. Zola crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimoli alla riforme; per Verga abbiamo detto, esiste da questo punto di vista una completa disillusione nei confronti di una possibile evoluzione del reale.

Ma dobbiamo tenere presente che Zola è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, una società già pienamente sviluppata dal punto di vista industriale, in cui i conflitti tipici del mondo capitalistico moderno hanno ormai raggiunto uno stadio avanzato, in cui esistono una borghesia attiva e consapevole ed un proletariato dalla coscienza sociale matura, combattivo ed organizzato; di conseguenza lo scrittore progressista, in quest'ambiente, si sente portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di potersi rivolgere ad un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire ad esso.

Verga al contrario, è il tipico "galantuomo" del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida e parassitaria ( nonostante i primi fermenti di innovazione e di sviluppo), e delle masse contadine estranee alla storia, chiuse nella loro miseria e nei loro arcaici ritmi di vita , passive e rassegnate.

Osservare questo non significa esaltare il progressismo di Zola contro il conservatorismo di Verga, e ricavarne giudizi di valore sulle rispettive opere; proprio la carica progressiva, per quanto generosa, è in buona parte responsabile dei vistosi difetti della narrativa zoliana: la mitologia scientifica alquanto rozza ed ingenua, la mitizzazione del popolo come forza selvaggia e primigenia, la creazione di situazioni melodrammatiche e forzate di simbologie artificiose, la pesantezza dell'intero documentario e così via. Mentre il pessimismo, la visione arida e desolata della realtà dà alla narrativa verghiana la sua secchezza ed essenzialità e le conferisce il suo valore altamente conoscitivo e critico.



Testo e Analisi : "Rosso Malpelo"



'Malpelo' si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano 'Malpelo'; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.


Il racconto occupa una posizione fondamentale nell'arco dell'opera verghiana: è infatti il testo che nel 1878 diede inizio alla fase "verista" dello scrittore.

Subito la frase iniziale evidenzia la rivoluzionaria novità dell'impostazione narrativa verghiana: affermare che Malpelo ha i capelli rossi perché "è un ragazzo malizioso e cattivo" è una stortura logica, che rivela un pregiudizio superstizioso, proprio di una mentalità primitiva. La voce non può certamente essere quella dell'autore reale, ma è al livello dei personaggi, è interna al mondo rappresentato, e ne riflette l'inconfondibile visione.

Scompare il narratore onnisciente, portavoce dello scrittore stesso, che era l'elemento caratterizzante della narrativa del primo Ottocento, in Manzoni, Scott e Balzac.

Non essendo onnisciente, ma portavoce di un ambiente popolare primitivo e rozzo, il narratore di "Rosso malpelo" non è depositario della verità, come è proprio dei narratori tradizionali. Difatti ciò che ci dice del protagonista non è attendibile: il narratore non capisce le motivazioni dell'agire di Malpelo, le deforma sistematicamente. Ecco un esempio molto evidente.


'Malpelo' non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta."


Dopo la morte del padre nel crollo della galleria Rosso scava con accanimento, ed ogni tanto si ferme, ascoltando. E' facile intuire che scava nella speranza di riuscire ancora a salvare il padre, e si ferma cercando di udire la sua voce al di là della parete di sabbia; ma il narratore non capisce questi suoi sentimenti filiali, e attribuisce il suo comportamento, in base al pregiudizio "Malpelo", alla sua strana cattiveria: " Sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrasse negli orecchi".


Più avanti, Malpelo tributa un vero e proprio culto alle reliquie del padre morto, gli strumenti, i calzoni, le scarpe: ciò dimostra in lui un attaccamento profondo, una pietas filiale per l'unica persona che gli voleva bene. Anche qui è facile intuire cosa si muova nel suo animo, dolore, rimpianto. Ma ancora una volta il comportamento del personaggio resta impenetrabile al narratore, che riflette la visione ottusa e disumanizzata di un ambiente duro come quello della cava.


'Malpelo' se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, 'Malpelo'! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella 'sciara'.


Infine Rosso prende a ben volere Ranocchio, lo protegge, gli vuole insegnare le leggi brutali che regolano la vita


Egli andava a visitare il carcame del 'grigio' in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche 'Ranocchio', il quale non avrebbe voluto andarci; e 'Malpelo' gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del 'grigio'. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il 'Rosso' non lasciava che 'Ranocchio' li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al 'grigio'? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il 'grigio' ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.


Addirittura si toglie il pane di bocca per darlo all'amico. Il narratore interpreta, riproducendo evidentemente l'opinione corrente nella cava : "per prendersi il gusto di tiranneggiarlo".


Qual è la funzione di questo sistematico stravolgimento della figura del protagonista? E' evidente dal racconto che Rosso, pur essendosi formato nell'ambiente disumano della cava, ha conservato alcuni valori autentici, disinteressati: la pietà filiale, il senso della giustizia, l'amicizia, la solidarietà altruistica. Il punto di vista del narratore "basso" esercita su questi valori un processo di stranimento: fa apparire strano e incomprensibile ciò che dovrebbe essere normale, i sentimenti autentici, i valori. E' una scelta che si propone di mettere in luce il meccanismo brutale della lotta per la vita, e che rivela tutto il pessimismo verghiano.

Non tutto il racconto però è impostato sull'effetto di deformazione e stranimento della figura del protagonista. Se nella prima parte Malpelo è visto solo dall'esterno, dal punto di vista ottuso e malevolo del suo ambiente, e le motivazioni dei suoi atti restano incomprensibili al narratore, nella seconda parte emerge il punto di vista del protagonista stesso e possiamo allora sapere cosa pensa e che cosa sente. Affiora così la visione cupa e pessimistica del ragazzo indurito dalla disumanità di quella vita di fatiche, patimenti e angherie. Rosso ha colto perfettamente l'essenza della legge che regola tutta la realtà, quella sociale come quella naturale: la lotta per la vita. Da questa consapevolezza della negatività del reale non nasce però in Malpelo la rivolta: proprio perché ha capito fino in fondo, egli sa che quella legge è immodificabile, e quindi non resta che adattarsi con disperata rassegnazione. Ma in lui c'è anche l'orgoglio di aver capito: e ciò lo distingue dal mondo in cui vive. Nelle vesti del povero garzone di una cava si delinea perciò la figura di un eroe intellettuale, portatore di una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà tragica quanto immodificabile. In lui si proietta  evidentemente il pessimismo dello scrittore stesso, la sua visione lucida ma disperatamente rassegnata della negatività di tutta la realtà, sociale e naturale. Verga non sa proporre alternative, però conserva un distacco conoscitivo che gli consente di rappresentare con straordinaria acutezza quella negatività.

Si può cogliere allora l'importanza dell'impostazione narrativa della novella, che inaugura tutto il modo di narrare del Verga verista: la materia in astratto ( i patimenti di un povero orfano incompreso e maltrattato ) potrebbe essere quella di un racconto umanitario , edificante e patetico, teso a suscitare facile commozione, come ce ne sono tanti nella letteratura ottocentesca. Ma il modo in cui viene raccontata trasforma Rosso malpelo in un'analisi dura e impietosa delle leggi sociali, dotata di altissimo valore conoscitivo e critico.



Il neorealismo tra narrativa e cinema


Se l'emblema del Verismo può essere considerato la fotografia, il cinema sarà alcuni anni più tardi, quello di un nuovo movimento letterario: il Neorealismo.

La nascita del Neorealismo si colloca tra il 1940 e il 1950, ovvero nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. E' proprio questo evento storico insieme con la lotta antifascista e la resistenza che lo seguiranno, che costituisce la base per un rivolgimento culturale e letterario in cui il nesso tra realtà socio-politica e poetica è costantemente presente.


Gli autori neorealisti intendevano rappresentare la realtà contemporanea della guerra, della Resistenza e del dopoguerra, per dare una testimonianza artistica di un'epoca che segnò tragicamente la vita di tutto il popolo italiano. Proprio il bisogno di rappresentare direttamente storie di vita vissuta in prima persona, sia dagli scrittori sia dai lettori, comportò la scelta della prosa a scapito della poesia, l'adozione di un linguaggio tendenzialmente chiaro e comunicativo, il rifiuto della tradizione letteraria della pagina ben scritta di moda negli anni Venti e Trenta.

La letteratura concepita dagli autori neorealisti era una letteratura 'impegnata': non opere di svago, ma libri che aiutassero a prendere coscienza della situazione contemporanea meditando sulla recente storia nazionale, facendo tesoro dell'esperienza in vista della ricostruzione di un'Italia nuova, democratica e antifascista. Ecco allora una serie di iniziative non strettamente letterarie, ma culturali. Vennero fondate alcune riviste sulle quali condurre il dibattito e diversi scrittori si impegnarono nel mondo dell'editoria per tradurre in pratica la loro visione della cultura. La rivista più importante fu 'Il Politecnico' (1945-1947) di Elio Vittorini, che aveva un'apertura di interessi internazionale. Lo stesso Vittorini fu insieme a Cesare Pavese tra i più influenti collaboratori della casa editrice Einaudi di Torino e diresse un'importante collana di narrativa, 'I Gettoni', in cui furono pubblicati molti titoli neorealisti.

A partire dal 1944 è densissima la produzione narrativa, cronachistica e diaristica che riflette gli eventi della guerra e in particolare della Resistenza: fogli clandestini e quotidiani pubblicano testimonianze che vengono espresse quasi per una necessità fisiologica da chi ha vissuto eventi drammatici. A guerra terminata gli editori ricominciano a pubblicare romanzi: del 1945 è Uomini e no di Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi, del 1947 tre delle principali opere narrative contemporanee, come le Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e Il compagno di Pavese. Ma altrettanto rappresentative della poetica neorealistica sono decine di opere che avranno fama meno duratura: da Racconto d'inverno (1945) di Oreste del Buono a Pane duro (1946) di Silvio Micheli, da Spaccanapoli (1947) di Ermanno Rea a L'oro di Napoli (1947) di Giuseppe Marotta e a Dentro mi è nato l'uomo (1947) di Angelo Del Boca. Ma già nel 1951 un'Inchiesta sul neorealismo, curata dal critico Carlo Bo, si poneva come obiettivo quello di tracciare un bilancio di quell'esperienza letteraria raccogliendo le dirette testimonianze dei principali narratori e considerandola, implicitamente, come una stagione conclusa. E in effetti, se si eccettuano rare e tardive espressioni, che peraltro già si scostano dai modelli originali (due nomi per tutti: Beppe Fenoglio e Giovanni Testori), il neorealismo può dirsi esaurito già intorno alla metà degli anni Cinquanta. E, infatti, convenzionalmente, il neorealismo si ritiene chiuso con la polemica che accompagnò la pubblicazione del romanzo di Pratolini, Metello (1955), storia della formazione umana e politica di un operaio sullo sfondo delle lotte sociali in Italia fra 1875 e 1902, da alcuni difeso come opera esemplare di un nuovo realismo, da altri considerato un romanzo fallito soprattutto per la rappresentazione idealizzata e sentimentale della classe operaia.



In particolare nel nostro Paese, come abbiamo detto, il neorealismo non si esprime solo nella tecnica narrativa, ma anche nel cinema.

I maggiori esponenti del movimento, sorto spontaneamente e non codificato, furono i registi Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis e lo sceneggiatore Cesare Zavattini.

Ci sono vari aspetti che caratterizzano il neorealismo: i film neorealisti sono generalmente girati con attori non professionisti (sebbene, in certi casi, furono scelti come protagonisti attori famosi, che recitavano per le parti protagoniste spesso contro le proprie abitudini, in un contesto popolato da gente normale piuttosto che da altri attori ingaggiati per la lavorazione).

Le scene sono girate quasi esclusivamente in esterno, per lo più in periferia e in campagna; il soggetto rappresenta la vita di lavoratori e di indigenti, impoveriti dalla guerra. È sempre enfatizzata l'immobilità, le trame sono costruite soprattutto su scene di gente normale impegnata in normali attività quotidiane, completamente prive di consapevolezza come normalmente accade con attori dilettanti. i bambini occupano ruoli di grande importanza ma non solo di partecipazione perché essi riflettono ciò che 'dovrebbero fare i grandi'.

I film trattano soprattutto la situazione economica e morale del dopoguerra italiano, e riflettono i cambiamenti nei sentimenti e le condizioni di vita: frustrazione, povertà, disperazione. Poiché Cinecittà, il complesso di studi cinematografici che dal era stato il centro della produzione cinematografica italiana, era occupata da sfollati, i film venivano girati in esterno, sullo sfondo delle devastazioni belliche.

Il neorealismo ebbe risonanza mondiale per la prima volta nel 1946, con Roma, città aperta, di Rossellini, primo importante film uscito in Italia dopo la guerra. Nonostante la presenza di molti elementi estranei al neorealismo, racconta chiaramente la lotta morale degli Italiani contro l'occupazione tedesca di Roma, facendo coscientemente il possibile per resistervi. I bambini sono osservatori della realtà e in essi ci sono le chiavi del futuro.


Il neorealismo italiano fu ispirato dal cinéma vérité francese, dal Kammerspiel tedesco, e profondamente ispirò la Nouvelle Vague francese; influenzò il movimento documentario americano e la scuola cinematografica polacca.





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