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Il paradosso di Olbers




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Il paradosso di Olbers


Il paradosso di Olbers Nel 1826 l'astronomo tedesco Heinrich Olbers  riprese
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Il paradosso di Olbers


Nel 1826 l'astronomo tedesco Heinrich Olbers riprese e rese poi celebre una vecchia questione (già enunciata e discussa in precedenza da altri: T. Digges (1576), J. Kepler (1610), E. Halley (1720), J.P. de Cheseaux (1744)) relativa al flusso luminoso proveniente dal cielo notturno. Olbers tentò di calcolare il contributo di tutte le stelle (oggi diremmo di tutte le galassie) alla luminosità del cielo notturno.

Partendo dall'ipotesi che l'universo sia statico, infinito e uniformemente popolato di stelle, Olbers giunse alla paradossale conclusione che il cielo notturno dovrebbe splendere più o meno come la superficie del sole. Nella versione moderna di tale paradosso le stelle vengono sostituite dalle galassie, ma il ragionamento rimane sostanzialmente immutato.

Immaginiamo infatti di suddividere lo spazio cosmico intorno a noi in infiniti gusci sferici concentrici di spessore r. Se  il numero di galassie per unità di volume è costante e pari a n, il numero di galassie contenute in ciascuna guscio sarà pari a . Il numero di stelle (galassie) cresce dunque con il quadrato della distanza r.

Se indichiamo con  la luminosità intrinseca media di una galassia, la luminosità intrinseca di ciascun guscio sarà pari a . D'altra parte le leggi della fotometria ci dimostrano che l'intensità della radiazione percepita (luminosità apparente) è inversamente proporzionale al quadrato della distanza secondo la relazione

Ciò significa che la diminuzione dell'intensità luminosa dovuta all'aumento di distanza viene esattamente compensata dall'aumento del numero di sorgenti luminose che si produce all'aumentare della distanza: la radiazione luminosa che ci proviene da ciascun guscio dovrebbe perciò essere indipendente dalla distanza e pari a

Se dunque sommiamo l'apporto luminoso di infiniti gusci sferici di spessore r otterremo che sulla terra deve giungere un flusso luminoso infinito e siamo dunque costretti a stupirci delle tenebre che caratterizzano le nostre notti. Evidentemente una delle ipotesi dalle quali siamo partiti deve necessariamente essere errata. Nel 1610 Kepler sostenne ad esempio che le tenebre della notte potevano essere utilizzate quale dimostrazione di un universo finito.


Omogeneità Le osservazioni dimostrano in realtà che le galassie non si distribuiscono uniformemente, ma si addensano in ammassi e superammassi. Tale tendenza all'aggregazione sembra tuttavia affievolirsi man mano che aumentiamo la scala osservativa e l'universo potrebbe apparire omogeneo a scale superiori a quelle dei superammassi (allo stesso modo in cui un solido ci appare perfettamente omogeneo su scala macroscopica, nonostante la materia di cui è costituito sia distribuita in modo non uniforme su scala atomica). Non vi sono comunque prove conclusive della distribuzione omogenea della materia su grande scala ed essa potrebbe mantenere la stessa distribuzione frattale che sembra manifestarsi alla scala degli ammassi e dei superammassi. In tal caso la materia luminosa potrebbe anche addensarsi a macchie, contribuendo in parte alla risoluzione del paradosso.


Universo infinito - Che l'universo sia finito o infinito in realtà non siamo ancora in grado di dirlo, tuttavia dal nostro punto di vista esso risulta essere comunque finito, poiché noi siamo in grado di percepire informazioni luminose provenienti solo da una sua porzione (universo osservabile).

Ciò è conseguenza della relativa giovinezza del nostro universo e della velocità finita della luce. Se infatti l'universo esiste "solo" da un tempo tH, la luce avrà percorso fino ad oggi un distanza ctH ed ogni osservatore, in qualsiasi punto dell'universo si trovi, potrà percepire solo una porzione di universo di raggio ctH (orizzonte dell'osservatore). Come ha suggerito E. Harrison (1965) non dovremmo pertanto sommare l'apporto luminoso di infiniti gusci, ma di un numero finito di gusci fino alla distanza ctH. I gusci più lontani sono infatti attualmente fuori del nostro orizzonte e la loro luce ci perverrà solo in futuro. Nell'ipotesi che l'universo sia euclideo, la sua età è pari a  ed il flusso luminoso percepito diventa pertanto

Universo statico Oggi possiamo dire con certezza che l'universo non è statico e la sua espansione  produce un red-shift che indebolisce l'intensità luminosa delle galassie (in misura tanto maggiore quanto più elevata è la loro distanza).

Come abbiamo visto il red-shift cosmologico aumenta le lunghezze d'onda di un fattore (z + 1)

ed essendo la lunghezza d'onda inversamente proporzionale all'energia di ciascun fotone , quest'ultima subirà, per effetto dell'espansione, una diminuzione di egual entità

Parimenti, se lo spazio si dilata di un fattore (z + 1), anche l'intervallo di tempo tra la ricezione di un fotone ed il successivo aumenta di un fattore (z + 1) rispetto all'intervallo di tempo che separava l'emissione di due fotoni. La frequenza di arrivo dei fotoni diminuisce cioè di un fattore (z + 1). In definitiva, poiché il flusso luminoso percepito è proporzionale al numero di fotoni ricevuti per unità di tempo, esso subisce una diminuzione, rispetto al flusso emesso, di un fattore (z + 1)2.

Il flusso luminoso percepito diventa pertanto



Per avere un'idea dell'ordine di grandezza del flusso luminoso che caratterizza il cielo notturno possiamo indicativamente assumere i seguenti valori:

= 1010 h-2 L = 2 1043 h-2 erg/s

n = 2 10-2 h3 galassie/Mpc3 = 6,8 10-76 h3 galassie/cm3

Ho = 100 h km s-1 Mpc-1 = 3,24 10-18 h s-1

c = 3 1010 cm/s

Poiché si ritiene che le prime galassie si siano formate circa 100 milioni di anni dopo il Big Bang (T 30°K z 10) e le galassie più vicine presentano z 0 possiamo utilizzare un valore medio di z = 5

Sostituendo i dati nella relazione precedente otteniamo un flusso di 2 10-6 erg cm-2 s-1, proveniente da tutta la sfera celeste.

Essendo l'angolo solido sotto il quale osserviamo l'intera sfera celeste pari a 4p steradianti (= 41.252,96 gradi quadrati = 5,3464 1011 secondi d'arco quadrati) possiamo calcolare il flusso luminoso per unità di angolo solido (1 secondo d'arco quadrato) che risulta essere pari a 4 10-18 erg cm-2 arcsec-2 s-1

Valore che corrisponde ad una magnitudine pari a 32 per arcsec2, contro una luminosità misurata di circa 27 gradi di magnitudine per arcsec2. Il che dimostrerebbe che il fondo di luminosità del cielo notturno non dipende dalle sorgenti luminose extragalattiche, ma verosimilmente dagli oggetti celesti appartenenti alla nostra galassia.



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